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SENATORE GIUSEPPE SAREDO |
+ Il Credo Politico |
DOCENTE UNIVERSITARIO - GIURISTA - CONSIGLIERE DI STATO |
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IL CREDO POLITICO - SAREDO LIBERALE E MONARCHICO |
+ Schede dei Licei di Savona |
IL CREDO POLITICO
SEGUACE
DELLA SCUOLA CLASSICA LIBERALE
In esso
raccoglieva, come l'ape sceglie il nettare di fiore in fiore, le più belle
frasi, pensieri e passi dei libri ed autori che leggeva, e dal quale
sceglieva poi sentenze e brani da cospargere, sotto forma di citazioni e
note, le sue opere. Molte di queste sono anzi precedute da simili sentenze e brani, proprio come le prediche dei sacri oratori; ed uno di tali testi, quello posto da Saredo in capo al suo più antico e più completo trattato di politica generale, ci svela appunto, senza ambagi, quali fossero le idee e principi politici dell'autore. Il testo è quello premesso all'opera intitolata «Principi di diritto costituzionale», e fu tolto dal discorso pronunziato da Cavour alla Camera dei deputati il 27 Marzo 1861, e suona così: «Noi crediamo che si debba introdurre il sistema della libertà in tutte le parti della società religiosa e civile; noi vogliamo la libertà economica ; noi vogliamo la libertà amministrativa ; noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza; noi vogliamo tutte le libertà civili e politiche che sono compatibili col mantenimento dell'ordine pubblico».
Saredo fu seguace della scuola classica liberale e fu un individualista della marca più schietta.
Forse,
come lascia intravvedere il comm.
Vittorio Poggi nel suo studio: «Una
poesia giovanile di Anton Giulio Barrili», (1) attinse i primi germi di
tali dottrine al tempo che frequentò il ginnasio a Savona. Ma lo sviluppo e
l'affermazione pubblica di esse avvenne in Torino. In quella Torino, che nel
1848 e per alcuni lustri successivi, erasi trasformata in asilo di quanti
agognavano libertà e rivendicazioni d'ogni sorta; in centro propulsore di
tutte le aspirazioni all'emancipazione delle menti, delle volontà, delle
persone, delle nazioni e dei popoli; e in focolare dell'unità e indipendenza
italiana.
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ALL'ALA DESTRA
Nette
tracce ed aperte professioni di liberalismo Saredo profuse in
quasi tutti i suoi scritti, dai primi articoli di giornale pubblicati a
Torino, alle opere voluminose e monografie e studi che diede alla luce fino
agli ultimi tempi di sua vita.
Sebbene
fosse un liberale e individualista fervidissimo, Saredo ebbe tuttavia sempre
tendenze di destra. Altro particolare degno di grande rilievo è che avendo vissuto in periodi, in cui dominavano le sette segrete ed era divenuta quasi condizione indispensabile ad ogni carriera amministrativa e politica l'affiliarsi ad esse, ed avendo camminato quasi sempre a contatto di uomini legati mani e piedi alla Massoneria, egli volle e seppe mantenersi ognora libero da qualsiasi nodo settario. Ma di ciò si dirà più diffusamente nel capitolo, ove si tratterà delle idee religiose del nostro personaggio. Inoltriamoci, invece, adesso ad esaminare, in modo più particolareggiato ed ampio, qualcuno dei suoi capisaldi politici.
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«Lo stato
- egli dice - per la scuola democratica e per quella amministrativa è il
tutore naturale e permanente dell'individuo, il quale per quanto
progredisca non potrà mai emanciparsi... Per esse, ogni aumento di civiltà
dovrà sempre portare un aumento di attribuzioni governative, un nuovo freno
all'attività individuale». (1) Secondo lui, invece, è l' individuo che deve collocarsi al di sopra di tutto e di tutti. Seguace della scuola liberale, che adora l' individuo, Saredo fa sue le parole di Guglielmo Humboldt: «che il gran principio d'ogni ordinamento sociale è l'importanza essenziale e assoluta dell’esplicamento umano in tutte le sue più ricche diversità». (2)
L’esplicamento
umano, ossia lo sviluppo libero, senza intoppi esterni od interni, della
personalità umana assurge per Saredo a fine dell'esistenza del cittadino
sopra la terra; ed il diritto dell’uomo si concentra nella facoltà
connaturale all'essere umano di dipendere unicamente da se nella direzione
dei suoi pensieri ed atti.
Parlando
di uomo, di essere umano, di individuo, Saredo intende, come è chiaro,
parlare del cittadino, ossia dell’uomo in quanto ha rapporti coi suoi simili
e non in quanto è una persona privata con operazioni, che incominciano e
finiscono in lei e si svolgono indipendentemente dalla convivenza e dal
concorso di altri uomini.(3) Ed a spiegar meglio il suo pensiero aggiunge:
«A rigor di termini un uomo può essere sano od infermo, intelligente o
instupidito, morale od immorale, senza che ciò riguardi chicchessia, senza
essere colpevole come cittadino. La sua personalità fisica, intellettuale ed
etica è affatto distinta dalla sua personalità giuridica».
Errore
fatale e fecondo di disastrose conseguenze, perchè separando
sistematicamente l'idea morale e religiosa dallo spirito delle leggi,
condusse ai deplorevoli inconvenienti degli stati atei, del laicismo nelle
scuole e nei tribunali, alla graduale scomparsa del buon costume e
dell'onestà nei commerci ed all'abbrutimento di innumerevoli individui, che
il liberalismo pretendeva elevare ! Per Saredo invece, il self government, ossia il libero governo di se stesso o la piena autonomia individuale doveva essere «il fondamento di tutte le grandi cose», il toccasana per la rigenerazione e progresso della civile società.
«Quanto
più l'uomo è autonomo — egli scrive — tanto più è civile»... «il progresso
dell'individuo armonizza necessariamente con quello della società, di guisa
che l'uno e l'altro sono ad un tempo causa ed effetto» e definisce la
civiltà «la esplicazione dinamica e progressiva della libertà umana o, per
dir meglio, dell'autonomia individuale». (5)
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«Qualunque
altro limite s'imponga è un'iniqua violazione dell'umana personalità,
un'offesa alla libertà, una diminuzione della responsabilità individuale e
per conseguenza un fonte di ingiustizia e di perturbamento sociale. Adunque
libertà di coscienza, libertà di lavoro, libertà di stampa, libertà
d'insegnamento e tutte le altre libertà sono conseguenze inevitabili dell'autonomia
individuale. Quando io professo una religione, quando lavoro, stampo o
insegno io non ledo la libertà di chicchessia, dunque non dovete ledere la
mia». (1)
E' vero,
la libertà di coscienza, di lavoro, di insegnamento e di stampa non lede le
libertà degli altri! Ma chi riesce a calcolare l'infinità di altri danni
che ad essi può cagionare? E fu il gran torto del liberalismo non aver
voluto o saputo tener conto di ciò! Proclamando l'assoluto diritto dell'individuo all'esplicazione della propria personalità, Saredo estendeva il suo pensiero a tutti gli esseri umani non solo a qualunque età o classe appartenessero, ma anche a qualunque sesso.
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Non
rinvenni alcuna pagina in cui egli asserisca (come logicamente dovrebbe
dedursi dai suoi principi) di volere anche per la donna la libertà di
pensiero, di parola, di coscienza, ecc. Non gli parve forse troppo
desiderabile per il bene civile!
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Ed alla stessa pagina osserva che se si da uno sguardo alla storia si vede: «che non il Comune, ma l'individuo è filosofo e legislatore; non la nazione, ma l'individuo combatte, trionfa o soccombe nelle battaglie del pensiero e in quelle della libertà».
In pagine
veementi stimmatizza le dottrine socialiste ed assolutiste che abbassano ed
annientano l'individuo, riducendolo ad uno strumento e schiavo da
sacrificarsi allo Stato, (3) tarpandogli le ali, privandolo della
responsabilità e libera iniziativa.
Allo
Stato, quali principali ed imprescindibili doveri, assegnava: Ma all'infuori di tal legittimo potere di costrizione e di quello di obbligare i cittadini ai contributi delle imposte e del servizio militare, necessari alla sicurezza interna ed esterna della Nazione, egli non consentiva allo Stato alcuna altra ingerenza nella vita degli individui o nell'esercizio delle loro libertà, fosse sotto forma di tutela che di assorbimento, come voleva specialmente la teoria socialista. «La tutela per l'individuo - dice Saredo - è argomento di puerizia, di demenza e di idiotismo» (8) ed altrove: «ogni qualvolta lo Stato ha assorbito la persona... sempre ha conculcato la giustizia, insultato il genio, quasi per punirlo di volersi sollevare».(9)
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In
quest'argomento fu meticoloso, eccessivo.
Non
ammettendo invece che lo Stato adoperi il pubblico erario in spese inutili e
peggio inique, che ledono i diritti dei cittadini, sconvolgendo la giustizia
ed esercitando pessima influenza sulla coscienza nazionale, non condannava
soltanto gli sperperi dei fondi segreti, commessi da ministri per farsi la
propria reclame o per compiacere brame personali o per soddisfare motivi
privati, ma riprovava le spese per feste pubbliche, per sovvenzionare
teatri, accademie, musei, biblioteche, borse di studio ecc.; e la ragione
che adduce è che lo Stato non deve prendere i denari agli uni per darli agli
altri o usare i denari di tutti a favore di pochi; non deve fare della
beneficenza o dell'arte ma della giustizia. (3) Per non citare che un punto, ecco che cosa diceva a proposito delle belle arti: «Un individuo viene a voi e vi vuota la borsa; ai vostri reclami egli risponde che il denaro che egli ha esatto da voi sarà da lui impiegato a incoraggiare le belle arti; cioè a comprar statue, tener aperti musei, creare monumenti, salariare pittori e scultori, pagar ballerine e tenori. Voi replicate naturalmente che la sua è un'azione iniqua: che se vi piacerà di pagar pittori o ballerine, siete padrone di farlo voi stesso e... che voi solo siete arbitro di decidere dell'uso che farete del vostro denaro...».
«Or bene,
invece di un individuo privato, che vi toglie il denaro, mettete l'esattore
governativo o comunale, forsechè queste ragioni perdono la loro forza?... Se
l'esattore mi chiede denaro per retribuire i servigi veri e reali che mi
rende il Governo ed il Comune,... lo pago volentieri... Ma se si tratta di
pagare dei trilli, delle capriole o dei colori, questo è un affar mio: e io
lo farò, se mi converrà,... meglio del Comune e del Governo. Egli si occupi
a rendermi giustizia che è ufficio suo; dei miei divertimenti me ne occuperò
io». (4)
E'
necessario ripetere qui un'osservazione analoga a quella fatta al capitolo
precedente, quando si parlò dell'insegnamento gratuito?
In questa
materia, ossia sul modo in cui lo Stato deve impiegare il pubblico denaro,
Saredo, come dissi, fu meticoloso ed eccessivo, negandogli perfino il
diritto e dovere di provvedere all'assistenza e beneficenza legale verso le
vittime di ogni sventura e miseria. «Vedo una persona cui il suo non basta:
gli dò liberamente una parte del mio: il mio diritto è rispettato. Ma se
invece di lasciarmi libero di dare o di non dare, mi si toglie con l'imposta
una parte di ciò che è mio per darlo agli altri che io non conosco e senza
il mio consenso, allora dichiaro che è leso il mio diritto». (6) Col tempo però, come modificò altre sue idee, smorzò alquanto anche questa sua intransigenza individualista a riguardo dello Stato, continuando tuttavia a dare, fino all'estremo suo giorno, l'esempio della rettitudine ed onestà che deve guidare gli amministratori del pubblico erario; e l'inesorabile severità con cui diresse, verso il 1900, l'inchiesta di Napoli testimonierà perennemente quale giustizia e scrupolosità pretendeva da coloro che in nome dello Stato, della Provincia o del Comune sono preposti a governare ed usare il patrimonio del pubblico.
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Consci
delle sue teorie liberali, non occorre che indaghiamo troppo a lungo i
motivi, che gli fecero ripudiare i governi assoluti. Egli li qualifica
illegittimi, nemici della libertà, conferenti al principe un'autorità
incondizionata e riducenti il popolo mancipio e proprietà inviolabile del
sovrano. (1)
Merita
invece d'essere conosciuto con una certa larghezza il suo giudizio sulle
democrazie o governi repubblicani.
Detto
inoltre che poggia sopra una teorica arbitraria misconoscendo «l'elemento
storico del diritto politico» e non riconoscendo per legittimo e razionale
altro governo che il repubblicano ; ed affermato che si fonda sopra la
diffidenza della libertà umana perchè toglie ai cittadini importantissime
responsabilità per addossarle al potere sociale; continua affermando che la
repubblica, perchè basata su simili teoriche, «non è governo di ragione
e... di libertà, ma governo di dispotismo: dispotismo paterno, intelligente,
disinteressato, patriottico, volontariamente accettato, diretto al
benessere universale tutto quello che si vuole: ma dispotismo» poco
rispettoso della libertà umana, strozzatore delle responsabilità
individuali, generatore di tutela statale da una parte e di sudditi pupilli dall'altra. (3).
Mettendo
poi a confronto i benefici che possono attendersi dalla monarchia
costituzionale con quelli d'una repubblica, asserisce tra l'altro: «...il
carattere transitorio dell'ufficio presidenziale è poco favorevole al
prestigio morale, che deve accompagnare il rappresentante inviolabile del
potere sociale; nuoce alla lenta e opportuna maturazione dei concetti
politici, alla continuità nella esecuzione; l'esperienza ci prova e la
cognizione dell'umana natura ci conferma che ogni nuovo eletto ad una carica
suprema di tal genere si crede in debito di rinnovare, di attuare le sue
idee proprie e di lasciare qualche traccia profonda del suo passaggio.
Conscio d'altronde della corta durata del suo ufficio o pensa alla sua
rielezione, o se prevede che sarà surrogato non imprenderà mai cose il cui
compimento non potrà ottenere, o delle quali forse toccherà l'onore di
averle attuate al successore». (4)
Ed un
altro motivo contro il governo repubblicano lo trae dalle divisioni, lotte e
disordini che nascono per le successioni alla presidenza e dei malumori ed
odi, che dopo le votazioni continuano a serpeggiare fra vinti e vincitori,
turbando la civica pace. (5) Ma l'argomento culminante della sua opposizione alla repubblica rimase sempre il timore che in essa non fosse sufficientemente salvaguardata la libertà e responsabilità individuale ; per cui, tacciando ancora una volta il governo repubblicano di dispotismo, esclamava: «Noi non vogliamo dispotismo di principe, ne dispotismo di popolo. Noi non vogliamo ubbidire che al supremo imperiato della giustizia» : (6) imperiato ch'egli vedeva, ammirava ed esaltava attuato nel governo monarchico costituzionale.
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Con lunghe
disquisizioni, con abbondanza e varietà d'argomenti, con risposte a
difficoltà ed obbiezioni, in interi capitoli od in parti di essi dimostra
che il governo costituzionale è governo legittimo, razionale, favorevole al
progresso ed alla civiltà. (3)
Nell'alleanza della monarchia colla libertà, avverata nel governo
costituzionale, egli scorgeva «il pernio immobile, la condizione inviolabile
ed immediata del rinnovamento civile e politico di una nazione» (4).
Riferendosi, d'altro lato, più particolarmente all'Italia dice che la
monarchia costituzionale non è solamente un dogma sacro per gli italiani,
essendo essa la conseguenza dei legami che uniscono strettamente il popolo
italiano all'eroica dinastia di Savoia; ma afferma che ha inoltre una
grandissima importanza pratica perchè è la «guarentigia più salda e più
durevole dei nostri diritti... e ci dà l'ordinamento sotto cui possiamo più
ampiamente svolgere la nostra attività» (6) ed altrove aggiunge di avere «la
convinzione che la nostra Italia è essenzialmente chiamata al reggimento
della monarchia costituzionale. Storia, stirpe, interessi, sentimenti,
virtù, vizi, qualità e difetti tutto concorre a fare degli italiani un
popolo preordinato a questa forma di governo...». E con entusiastico slancio
aggiunge: «Se come giornalista, la mia ragione mi dimostra la bellezza,
l'armonia, la forza e la filosofia della monarchia costituzionale; la mia
coscienza come italiano me ne dimostra la necessità per il mio paese». (7)
Il tipo di
costituzione da lui vagheggiato come più perfetto e ideale fu però quello
inglese, che egli decantò ed additò replicatamente, nei suoi libri, come
modello di vicendevole rispetto e lealtà fra la Corona ed il popolo e di
illuminata cooperazione fra Principe e cittadini per il bene dello Stato.
«L'
Inghilterra ci serve d'esempio - esclama egli nel volumetto su
Federico Sclopis.
- Leggete la storia del popolo inglese. Ivi non troverete
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AUTONOMIE COMUNALI E PROVINCIALI
Egli
caldeggiò sempre le autonomie comunali e provinciali, osteggiando
l'accentramento governativo, definendolo un incentivo alle rivoluzioni e
considerandolo come un genere di amministrazione in antagonismo col
progresso civile ed economico dei popoli e generatore di immoralità. (1)
Nella
«Introduzione alla nuova legge Comunale e Provinciale» (p. 442) scriveva
«Un gran numero di affari di interesse puramente locale e di minor conto
viene trattato nei Dicasteri. L'attività dell'amministrazione centrale
viene da essi assorbita, non può rivolgersi con maggior attenzione ai
negozi più gravi. La necessità del provvedimento dell'autorità centrale è
cagione di perdita di tempo e questa fa cessare talvolta l'opportunità del
provvedimento stesso; cagiona spese maggiori, rende l'errore del dicastero
più grave nelle sue conseguenze e per ogni minimo affare fa risalire le
scontentezze dell’amministrato fino al potere centrale. Quando sopra un
negozio può provvedersi dai prefetti e non vi è alcuna ragione di ordine
pubblico che esiga l'intervento del governo centrale bisogna esonerarne i
dicasteri».
Nei
riguardi dell’Amministrazione generale dello Stato e dei Ministeri in
particolare lamentava che nè a l'una nè agli altri fossero state ancora
apportate quelle modificazioni e perfezionamenti che le circostanze di
tempo, di luogo e di progresso richiedevano.
Disapprovava così nei legislatori italiani, dall'unificazione del Regno in
poi, la «mancanza di un concetto direttivo» per cui non era stata tenuta nel
debito conto nè la maniera in cui la nuova Nazione si era formata, nè la
diversità di usi, leggi, tradizioni e interessi delle non poche e differenti
provincie annesse.
«Accadde
ciò che era facile prevedere; il vestito troppo largo per gli uni era
stretto per gli altri; ma conveniente ed agevole per nessuno.
Nelle sue critiche non misconosceva che, nel corso degli anni, dal Governo e dal Parlamento erano stati fatti tentativi per il miglioramento della vita amministrativa del Paese; tuttavia, nel 1895, era costretto a biasimare che «i criteri che dirigono la legislazione... conservano... nel loro complesso tutti i loro contrasti con la realtà delle condizioni e dei bisogni delle diverse popolazioni della penisola». (3)
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Altre
censure rivolgeva ai ministeri di grazia e giustizia, della guerra e della
marina perchè diretti da uomini politici invece che da funzionari
competenti, inamovibili, estranei e superiori a tutte le competizioni di
parte. Secondo lui, e giustamente, la linea direttiva di questi ministeri doveva essere ben definita, mirante ad uno scopo ben determinato e preciso, basata su criteri saldi, coordinati e sicuri, svolgentesi senza sbalzi e interruzioni, e ispirante la fiducia e la sicurezza dell'intero paese.
Avendo
essi, invece, a capo un ministro politico, un uomo cioè appartenente a
qualcuno dei tanti partiti, non potevano offrire tali prerogative e
garanzie sia perchè il ministro, soggetto a tutte le oscillazioni della
politica, poteva essere sbalzato da un giorno all'altro dal potere, senza
alcuna speranza di continuità della sua opera, sia perchè lo stesso, nella
brama di conservare la carica, poteva porgere più ascolto agli amici sui
voti dei quali contava, che alla voce del dovere, dell'equità e
dell'interesse pubblico. (1) Saredo, in sostanza, mirava a che i ministeri divenissero più spigliati e liberi da ogni fardello ingombrante, che potesse affidarsi ad amministrazioni inferiori; che si imponessero per gravità, disciplina e competenza e che allontanassero da se anche la menoma ombra di intrighi e ingiustizie, perchè quanto più i supremi organi esecutivi d'uno stato costituzionale sono perfetti ed agiscono regolarmente, tanto più esso acquista autorità, stima e valore.
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FEDELTA' ALLA DINASTIA
I
«Principi di diritto costituzionale» il
«Du principe des alliances» ed «Il
passaggio della Corona», pubblicati da lui in epoche diverse, contengono
brani alati, sufficienti da soli a testimoniare la sua grande ammirazione ed
affetto per la Casa Savoia e lo studio che poneva per farla rispettare ed
amare dagli altri.
Esaltò
Carlo Alberto come re che glorificò la propria stirpe regale, concedendo lo
Statuto e combattendo per la liberazione delle terre italiane dalle mani
dell’Austria. Additò ai popoli Vittorio Emanuele II come «il più gran
principe» e «principe modello»,
chiamandolo: «prince dont
le nom est devenu synonyme de loyautè, de bravoure, de patriotisme et de
grandeur d'âme»
(1) e definendolo «modello
ai sovrani... di lealtà cavalleresca, di devozione illimitata al bene
pubblico, di scrupolosa osservanza delle leggi costituzionali, di
fiducia piena e costante
nell'azione feconda della libertà(2) E sotto il regno di questo nuovo sovrano, i molteplici anelli che annodavano l'animo di Saredo alla Dinastia di Savoia si strinsero ancor più perchè nelle frequenti occasioni che egli, nelle sue qualità di Consigliere di Stato, di Senatore o di Presidente del Consiglio di Stato, ebbe di avvicinare Umberto I e di trattare con lui, trovò nuove prove della squisita cortesia e magnanimità dei Savoia, come si vedrà brillantemente nel capitolo, ove si parlerà dell'intervento del «re buono» a favore dell'«exequatur» di Mons. Giuseppe Scatti, Vescovo di Savona. Qui mi limiterò a ricordare un altro episodio, piccolo ma eloquente.
Recatosi
un giorno Giuseppe Saredo all'udienza reale, Sua Maestà dopo averlo alquanto
osservato gli disse: Non posseggo alcuna lettera od altro manoscritto di Saredo accennante ai suoi rapporti coll'attuale sovrano Vittorio Emanuele III. Quando questi ascese al trono, rimasto vuoto per l'esecrando delitto di Monza, quegli era già Presidente del Consiglio di Stato, ma non sopravisse che poco più di un biennio. Ma se mancasse pure ogni altro documento capace di farci conoscere quanta stima il re abbia posto in Saredo e quanto questi gli abbia fedelmente corrisposto, supplirebbe ad abbondanza il fatto della famosa inchiesta di Napoli, avendo il re affidato a lui il delicatissimo e difficilissimo incarico di presiederla ed avendola egli, per tenere alto il nome d' Italia, della Monarchia e della Casa Sabauda, condotta e diretta con tale spirito di abnegazione e sacrificio da non temere fatiche, odi, insulti, calunnie, lotte sorde ed aperte e da sfidare la stessa morte. Ad entusiasmarlo della Dinastia di Savoia non concorsero solamente le gesta cavalleresche, gli ardimenti eroici, le virtù patriottiche e liberali di discendenti maschili di essa, ma vi contribuirono altresì le doti di gentilezza, sapienza, soavità e dolcezza di principesse e regine, come ne fa fede il passo seguente, veramente lirico, inneggiante alla regina Margherita, sposa di Umberto.
«Prerogativa della regina è di raccogliere intorno al trono le simpatie di
tutti gli animi gentili e ben nati, di essere esempio incomparabile di tutte
le virtù che attirano sulla donna la riverente ammirazione della Nazione;
di essere sempre la prima a partecipare alle feste dell'intelligenza e del
cuore; di avere pronto l'aiuto consolatore nei dolori e nelle miserie; di
asciugare le lacrime dì chi soffre e di temperare colla soave autorità
della donna la gravità dei diritti e doveri della corona: di rappresentare
sul trono la dolcezza, la bontà e la clemenza; di incoraggiare col prestigio
delle grazie sovrane le scienze, le lettere, le arti». Non ultimo, né più trascurabile motivo di sì schietta ammirazione e fedeltà di Saredo verso la Dinastia reggitrice delle sorti d' Italia fu certamente lo slancio generoso con cui dai Savoia si disposò e sorresse la causa dell'unità e indipendenza nazionale, di cui egli s'era invaghito giovanissimo divenendone costante ed autorevole assertore.
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E Saredo
fu di essi propagatore zelante, avversando però le piazzate, le scene
clamorose e le declamazioni retoriche. Credo superflua la citazione di altri passi, comprovanti la sua schietta adesione e partecipazione alla causa del risorgimento italiano: esse non possono mettersi in dubbio e dal detto finora appaiono in piena luce solare, e terminerò questo paragrafo rievocando come Saredo salutasse gongolante (3) l'occupazione di Roma, ripetendo da «italianissimo» l'«hic manebimus optime» e come sedesse fra i primi ad insegnare, in nome dello Stato italiano, nelle aule di quella «Sapienza» che, per secoli e secoli, aveva istruito la gioventù e formato dotti e grandi nel nome dei Papi.
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«Quando un
individuo afferma pubblicamente le sue credenze e le sostiene rispettando
rigorosamente i diritti altrui, quando cerca divulgarle con mezzi onesti e
legittimi, senza violenza e senza frodi, allora egli ha il diritto di
esigere che la sua libertà d'azione sia pienamente guarentita dalle leggi
civili e che nessun ostacolo sia imposto alle sue credenze, quand'anche esse
fossero interamente opposte a quelle dell'intera maggioranza dei
cittadini». (2)
Sono
convinto che Saredo nel declinare della sua esistenza non abbia più blandito
con tanto entusiasmo siffatte dottrine, le quali fin dall'ultimo scorcio del
secolo XIX avevano accumulata tanta abbondanza di disonestà pubbliche e
private, di immoralità nei commerci e nell'industria, di frodi alle
amministrazioni comunali, regionali e statali e di danni e disastri alle
famiglie ed alla società. E tanto meno le avrebbe ancora approvate, dopo
che esse condussero non poche nazioni al pericolo di cadere nel baratro del
comunismo. Libertà di coscienza, in pratica, sia in alto che in basso, salvo
rarissime eccezioni equivale a non avere alcuna coscienza o ad agire contro
la coscienza naturale, e su questo sentiero si avviano, anche senza volerlo,
i popoli alle catastrofi.
Ma mentre
egli reclama con tanta solerzia l'intervento dello Stato per garantire la
libertà di coscienza ad ogni cittadino, ripudia con altrettanta energia
dall' ammettere che abbiano diritto di esistere governi che quella libertà
guidino, limitino o sopprimano: e giunge al punto da dichiararsi contrario
ad «ogni ingerimento governativo negli affari che concernono la morale e la
coscienza, anche quando il governo possedesse tutta intera la verità e fosse
infallibile». (4) Ed uno dei motivi che l'assillavano, oltre all'amore sviscerato alla libertà ed al timore che anche l'infallibile potesse sbagliarsi, era la preoccupazione che senza la libertà di pensiero sulla «destinazione dell'uomo, sulla vita futura, su Dio» si sarebbe arenato il progresso. (5) Quasi che senza aver lasciato libero sfogo a tutte le astruserie, falsità e balordaggini dette e stampate da tutti i liberi pensatori intorno a Dio, al fine dell'uomo, all'esistenza ed immortalità dell'anima, Pasteur non avrebbe trovate le sue teorie patologiche, Stephenson non avrebbe inventato la locomotiva, Volta la pila, Meucci il telefono, Edison il fonografo, Marconi le trasmissioni senza fili, Zeppelin i suoi dirigibili ecc. ecc.
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«La
libertà di stampa - scrive infatti Saredo - considerata nella sua essenza,
non è altro che un corollario della libertà di coscienza. Se l'uomo ha dal
suo Creatore la facoltà di sentire liberamente, ha altresì il diritto di
esprimere quello che sente, altrimenti la facoltà che possiede resterebbe
annientata nella sua fonte, e si verrebbe a condannare l'opera del
Creatore». (1) E chiamando la stampa «una lampada immensa, che rischiara col suo splendore gli atti lodevoli non meno che i disonesti» dice: «tutte le libertà hanno chi le odia, per ignoranza o per interesse, ma nessuna di esse è tanto odiata quanto la libertà della stampa». (2)
Su tale
libertà, difendendola a spada tratta, svolge una dissertazione d'una
cinquantina di fitte pagine, analizzando ed illustrando le ragioni che la
sostengono, esaminando i vincoli e restrizioni impostele dalle leggi,
criticando aspramente le pene che la minacciavano prima del 1862, e
studiandola in rapporto ai cittadini ed ai tre poteri dello Stato:
l'esecutivo, il legislativo ed il giudiziario.
Nelle sue
investigazioni è minuzioso e talora fin troppo consequenziario, come appare
dall'enumerazione che fa degli effetti derivanti dalla limitazione o
soppressione di detta libertà. Dalla maggiore o minore larghezza, poi, con cui nelle nazioni o da uomini politici viene ammessa la libertà di stampa, egli trae la misura per valutare la bontà dei governi e ministri.
«Se volete
- sentenzia egli - un criterio sicuro sulla bontà d'un governo, interrogate
le sue leggi sopra la stampa. Se volete giudicare dell' integrità di
carattere dà un uomo di Stato, chiedetegli quali sono le sue opinioni sopra
la stampa... Guai a quel partito che la combatte! Egli ha sottoscritto la
sua condanna». (4)
Ed in
altra parte della medesima pagina ancora più esplicitamente proclama:
«Quando vedete un governo, un ministro od un pubblicista maledire alla
libertà della stampa, voi potete essere certi che avete dinanzi a voi o la
codardia o l'improbità».
Può darsi
che qualche volta sia pur troppo successo così ! Ma quante altre volte si è
dato di trovarsi invece dinanzi ad un sovrano o ministro, che nel
disapprovare e frenare la libertà della stampa non seguiva impulsi codardi
ed improbi, ma i dettami del buon senso e la nobile ambizione di ostacolare
l'anarchia, il dilagare del malcostume e la depravazione sociale: poiché i
vincoli regolatori della libertà di stampa non sono unicamente quelli
tendenti a far rispettare la «giustizia nella persona e nell'onore altrui»
come vorrebbe Saredo, (5) ma debbono essere altresì quelli diretti, per
esempio, al mantenimento del senso morale, alla difesa della pubblica
onestà ed alla salvaguardia della famiglia !
L'esposizione che, nel capitolo precedente feci delle idee di Saredo circa
la libertà d'insegnamento, alla quale era arcifavorevole, mi dispensa dal
fermare nuovamente intorno ad esse l'attenzione del lettore.
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«Un individuo - scriveva - ha egli il diritto di pregare come crede e come sente? Sì. Dunque cento individui, mille individui hanno diritto di riunirsi per pregare: ciò che è giusto e legittimo per uno è naturalmente anche giusto e legittimo per mille. Un uomo ha egli il diritto di lavorare? Sì. Dunque dieci, mille individui hanno lo stesso diritto, anche quando si riuniscono per lavorare insieme». (2)
Anche in quest'argomento non mancò di mostrarsi, come era naturale dati i suoi principi, risolutamente ostile alle inframettenze governative, dichiarando che dove il diritto di associazione vige più liberamente, ivi gli Stati sono più inciviliti e dove invece l'«associazione è una parola vuota di senso, ivi mancano o scarseggiano importantissimi elementi di civiltà». (3)
E
rivendicando la libertà d'associazione non ammetteva esclusioni nè di scopi,
nè di classi di persone a meno che gli uni o le altre tendessero ad un fine
contrario alla giustizia. Si distinse perciò, come si vedrà meglio più
innanzi, dalla colluvie di quegli altri liberali che per settarismo od
opportunismo politico o per pregiudizi anticristiani, pur sbandierando ai
quattro venti il programma della libertà di associazione, la negavano o
mutilavano quando trattavasi di riconoscerla o concederla ai religiosi.
E nello
sviluppo dello spirito ed attività associativa riscontrava una delle più
efficaci collaborazioni del civile progresso, come risulta dalle parole che
pronunziò, nel 1899, nel discorso inaugurale del Circolo giuridico di Roma,
in cui quasi preannunziando il fortunato avvenire dei sindacati di classe e
lamentando che l' Italia difettasse di stima e di fede nelle associazioni
corporative, diceva:
Dal vastissimo campo delle libertà, sulle quali Saredo compose vere ed elaborate trattazioni, riduciamoci ora a dare un cenno sommario di altri argomenti atti a mettere in maggior rilievo la di lui figura politica.
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«Sgraziatamente è venuta di moda la teoria delle due morali: la morale privata e la morale pubblica. Si pretende che un uomo può essere onesto nella vita pubblica e disonesto nella vita privata: si pretende che può aver luogo anche il contrario, che, cioè, un pessimo cittadino può essere virtuoso nella sua vita privata. No, vivaddio, no, mille volte no! Non sarà mai vero che vi possa essere diversità fra le due virtù: un pubblico furfante sarà sempre anche furfante privato: non vi è che una morale e questa è la stessa e per la vita pubblica e per la vita privata». (1)
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DIRITTO
DI SINDACARE GLI UOMINI PUBBLICI
«E' forse
questo un abuso? è forse un'ingiustizia?» si domandava: e rispondeva ch'era
un diritto dei cittadini. E continuava: «Voi, candidato, vi presentate a me
per chiedermi il mio suffragio, perchè io vi elegga a mio mandatario: voi
volete che vi dia facoltà di far leggi concernenti la mia persona e i miei
beni. Io non ho nessuna difficoltà a farlo, ma prima voglio conoscervi... Se
voi rimanete nell'inviolabile santità del focolare domestico... io non avrei
il menomo diritto di occuparmi dei fatti vostri... Ma no! Voi volete
rinunciare alla vita privata: voi volete entrare nella vita pubblica. Siete
padrone di farlo! Ma entrateci a vostro rischio e pericolo, e sottomettetevi
a tutte le conseguenze del vostro operato. Voi aspirate a governare me. Sia
pure. Ma prima... voglio sapere come governate voi stesso, come governate la
vostra famiglia. Voi chiedete l'incarico di far leggi sulla mia persona e
sui miei beni: voglio sapere come regolate i vostri...
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E come
domandava l'indennità per i deputati, così invocava la riduzione dei
bilanci statali, l'istituzione dell'imposta progressiva, il lavoro nelle
carceri, voleva il voto obbligatorio, combatteva la pena di morte, avversava
il socialismo, difendeva il diritto di proprietà dicendolo: il cardine
costitutivo della famiglia e dello Stato.
Tali
argomenti e molti altri di notevole importanza politica sono svolti qua e
là nei «Principi di diritto costituzionale», ove il lettore potrà facilmente
trovarli coll'aiuto dei ricchi indici e diffusi sommari di cui Saredo
adornò i volumi.
Giuseppe
Saredo, liberale spiccatamente individualista, foggiatosi un sistema
filosofico-politico, avente per base la più ampia esplicazione delle
attività e libertà individuali (2) limitate unicamente dalle ragioni di
ordine pubblico e dal dovere proprio di ogni cittadino di non ledere lo
sviluppo delle attività e libertà degli altri, ne trasse direttamente le
conseguenze teorico pratiche da applicarsi, come panacea, alla soluzione dei
problemi della vita sociale, amministrativa e giuridica ed alla lotta contro
i mali da cui può essere afflitta una nazione. Come tutti i sistemi liberali, anche il suo non andò immune da errori e contraddizioni ed alcune pecche ve le aveva scoperte lo stesso Minghetti, secondo che risulta da lettere di costui.
Nelle
deduzioni dal suo sistema, Saredo fu rigidamente vincolato ai principi
posti, senza preoccuparsi se fossero o no conformi a quelle di altri
liberali riconosciuti e stimati da lui medesimo quali maestri. Dissentì infatti su vari punti da Stuart Mill, Minghetti, Mamiani, Mancini ecc. (3) Ed in talune osservazioni e conclusioni, sempre per mantenersi troppo tenacemente attaccato ai principiasi scorge talora alcunché di ingenuo, come là dove sostiene la libertà di stampa nei riguardi della famiglia e del buon costume, nonostante che gli si facessero presenti i gravissimi pericoli e guai che ne scaturirebbero. (4)
Se nei
suoi volumi s'incontrano - fu già avvertito - idee e teorie reputate ora
inaccettabili, (5) è bene ripeterlo, col tempo egli ne modificò e mutò non
poche. Sapientis est mutare consilium! Tra gli errori e contraddizioni più salienti del liberalismo di Saredo non devono omettersi quelli di ordine religioso.
Ma di
fronte alla religione egli, sia cogli scritti che colla vita pubblica,
s'acquistò non poche e non piccole benemerenze, le quali insieme agli errori
suddetti varranno assai efficacemente a completarci la mentalità politica
del personaggio che studiamo. Tali benemerenze e tali errori formeranno appunto l'argomento dei prossimi due capitoli.
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1. GIUSEPPE
SAREDO - BIOGRAFIA
3. IL
CREDO POLITICO
- SAREDO LIBERALE E MONARCHICO
4. TEORIE FILOSOFICHE E RELIGIONE
5. L'INFUENZA POLITICA E LA QUESTIONE ROMANA
6. IL COMMISSARIAMENTO E L'INCHIESTA DI NAPOLI
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